Si voterà domenica 17 aprile per il referendum anti-trivelle promosso da nove regioni italiane. Si tratta del primo referendum nella storia della Repubblica convocato per iniziativa regionale anziché popolare, o meglio, prima che le regioni adottassero questa battaglia una raccolta firme c’era stata, ma non aveva raggiunto le 500mila adesioni richieste dalla Costituzione per indire un referendum abrogativo. Il fatto che la consultazione sia di iniziativa regionale, insieme al particolare che solo tre delle nove regioni promotrici siano direttamente interessate dalla questione-trivelle, dovrebbe farci riflettere un po’. L’unico quesito referendario che sarà posto il 17 aprile infatti si accompagnava ad altri cinque quesiti che sono stati bocciati dalla Corte di Cassazione in virtù delle modifiche apportate in materia dal Parlamento in occasione della legge di stabilità 2016. Sulla questione è in atto di fronte alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzione tra stato e regioni per chiarire di chi fossero le competenze nel regolare la materia. Alla luce di quanto detto il referendum del 17 aprile appare allora più il residuo delle pressioni esercitate dalle regioni su Governo e Parlamento in merito alla redistribuzione delle competenze tra stato ed autonomie locali, che un’iniziativa di natura ambientalista. Le stesse associazioni a tutela dell’ambiente poco si sono mosse a sostegno dell’unico quesito referendario, facendo rimpiangere la grande mobilitazione avutasi per il referendum sull'acqua pubblica del 2011.
Tuttavia, da buoni AltroParlanti, dobbiamo tenere in considerazione tutti gli aspetti della vicenda e, seppure il referendum fosse solo una mossa delle regioni a tutela delle loro competenze, è comunque opportuno capire di cosa si parli nel concreto. In Italia ci sono 106 concessioni marine per l’estrazione di gas e petrolio, solo 21 di queste però riguardano piattaforme che si trovano entro le dodici miglia dalla costa e sono perciò interessate dal referendum del 17 aprile. Se dalle 106 concessioni si ricava nel complesso circa il 10% degli idrocarburi annualmente consumati nel nostro paese, dati non certi ma credibili ci dicono che dalle piattaforme entro le dodici miglia arrivano non più del 2% degli idrocarburi che usiamo. Inoltre la vittoria dei no-triv al referendum non determinerebbe l’immediata chiusura di tali piattaforme, ma il blocco al rinnovo delle concessioni al momento della loro scadenza, ci vorrebbero quindi comunque tra i cinque ed i dieci anni per chiudere definitivamente tutte le piattaforme sotto tiro.
Ma quanto e come inquinano le trivelle?
Gli effetti nocivi sul mare sono sostanzialmente di due tipi:
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Nella fase di montaggio delle piattaforme gli spostamenti ed il lavorio cui è sottoposto il fondale marino determinano danni alla conformazione del fondale stesso ed alle forme di vita presenti. Questo aspetto ha poco a che fare con il referendum del 17 aprile poiché si parla di piattaforme già costruite e poiché l’installazione di nuove trivelle entro le dodici miglia è comunque già vietata.
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Nella fase di estrazione i problemi più grossi derivano dallo scarico in mare delle cosiddette acque di produzione: un mix di “acqua sporca” già presente nei giacimenti e contaminatasi al contatto con gli idrocarburi e di acqua di processo utilizzata per lubrificare gli impianti e aumentare la pressione in estrazione. Tali acque devono comunque essere trattate e “ripulite” prima di poter essere re-immesse in mare.