Cosa ha da dire la scienza sul "senso" della vita, "sull'universo e tutto quanto", come cita il famoso romanzo di Douglas Adams? Per molte persone: niente. Eppure, la scienza ha molto da dire in merito, tanto quanto, se non più della stessa filosofia. Perché allora si tende a pensare il contrario?
Ritengo che il motivo sia da ricercare nella mentalità che noi occidentali abbiamo adottato da parecchi decenni, nella ricerca quasi spasmodica dello sviluppo (da non confondere col progresso), nell'utilitarismo. Un esempio è rappresentato dalla classica domanda che ogni studente di filosofia sente porsi di continuo: "cosa farai dopo? Quali prospettive lavorative offre? A cosa ti servirà?". Senza dubbio la scuola ha il compito di preparare i ragazzi alla vita adulta, il ché significa, in primo luogo, conferire loro gli strumenti intellettuali per inserirsi nel mondo del lavoro, al fine di essere utili alla società. Questo però non è l'unico proposito dell'istruzione: la scuola, università inclusa, deve anche formare persone in grado di indagare il grande mistero che è la vita stessa.
A che scopo vivere, se non per comprendere, almeno in parte, il motivo per cui siamo al mondo?
Il biologo e autore inglese Richard Dawkins, in alcuni dei suoi libri, paragona la quotidianità a un anestetico: siamo così assuefatti dalla routine quotidiana da non renderci conto di quanto sia incredibile l'universo di cui siamo parte; e quanto più lottiamo, ogni giorno, per pagare le bollette, per crescere i nostri figli, per avere successo o seguire una passione, tanto più dimentichiamo di essere, prima di tutto, degli "astronauti". Immaginate di essere degli astronauti in viaggio su un'astronave, ibernati e senza meta; immaginate di attraversare innumerevoli stelle per secoli o addirittura per millenni. Vero, non ve ne rendereste conto perché ibernati, ma provateci comunque. Poi, senza preavviso e contro ogni aspettativa, vi risvegliate su di un pianeta alieno: un mondo incredibile, brulicante di vita, rigoglioso, con acqua allo stato liquido, aria respirabile e con tramonti e albe da brivido.
Questo, in un certo senso, è accaduto davvero, e per quanto l'uomo abbia provato con la poesia, la musica e l'arte a descriverlo, non riuscirà mai a rendergli giustizia, perché la realtà supera qualsiasi immaginazione o rappresentazione. Questo universo, per quanto ne sappiamo, è vecchissimo: si stima che abbia 14 miliardi di anni, ma noi viviamo in media 70-80 anni; la nostra non è altro che una brevissima parentesi di coscienza, immersa in uno sconfinato oceano temporale. Perfino le ere geologiche (che messe a confronto con quelle cosmiche sono nulla) rappresentano un'eternità, se paragonate alla vita media di un essere umano o di qualsiasi altra forma di vita su questo pianeta.
Quale immane spreco, quale sacrilegio o "bestemmia" commetteremmo, nel trascorrere questa breve parentesi di coscienza a nostra disposizione pensando unicamente all'utile, invece di investigare quella serie di improbabile circostanze di cui siamo il frutto?
Da un punto di vista darwiniano la risposta è semplice: come tutti gli altri esseri viventi, noi siamo programmati per vivere e riprodurci, non per comprendere. L'unica ragione per cui siamo in possesso della facoltà di capire, è perché tale caratteristica ha favorito la sopravvivenza dei nostri antenati, permettendogli di adattarsi al loro ambiente e di modificarlo, costruendo strumenti e padroneggiando gli elementi. Eppure, il sotto-prodotto di questo lungo e complesso processo selettivo (l'evoluzione), ovvero l'intelligenza, ha raggiunto un tale livello da essere in grado, almeno in parte, di investigare l'universo, e di comprendere che tale atto non ha soltanto ritorni materiali (benefici economici, tecnologici o di altro tipo), ma è in sé una fonte di guadagno. Non mi riferisco a una qualche forma di utilitarismo, ciò che guadagniamo è un senso, uno scopo, ciò che l'uomo ha sempre perseguito attraverso la religione, la quale è un pessimo modo di cercare la verità.
Anche "disputare lungamente sulle massime questioni senza giungere a verità alcuna" è un pessimo modus operandi: la filosofia, da sola, è limitata tanto quanto lo è la mente umana, ciò che le serve è un metodo di indagine rigoroso e strumenti in grado di estendere i limiti della mente e dei sensi dell'essere umano: mi riferisco al metodo scientifico.
Tra i filosofi c'è chi afferma che la scienza serva solo per perseguire benefici materiali, opinione condivisa dalla maggioranza delle persone, come citavo a inizio articolo, c'è addirittura chi arriva a definirla "arrogante". In realtà investigare i misteri un piccolo passo alla volta e con la consapevolezza di avere grossi limiti (e quindi alzare il culo e costruire strumenti in grado di estenderli) non solo è intrinsecamente umile, ma è l'unico modo per raggiungere delle piccole verità. Certo, non si tratta di grandi rivelazioni divine o di affascinanti speculazioni filosofiche, ma una piccola verità è sempre meglio di una grande speculazione, e tante piccole verità possono condurre a una grande verità, mentre tante grandi speculazioni non conducono ad altro che a un enorme castello di carte, tanto fragile quanto lo sono i sofisticati dogmi di una millenaria dottrina religiosa.
Ecco perché un buon filosofo è anche uno scienziato, e viceversa; entrambi possono cercare la conoscenza senza necessariamente un tornaconto o un'applicazione pratica, la differenza risiede nelle natiche del primo, che mai si scollano dalla sedia.